In Approfondimenti

Ecco cosa diceva la Legge Balduzzi, ora sostituita e migliorata dalla Legge Gelli. Una digressione importante per meglio comprendere cosa cambia e come comportarsi. Per spiegarne l’attuazione ci avvaliamo dell’intervento di Mauro e Francesco Bilancetti descritto sul Sole24Ore in un articolo PROFILI CIVILI E PENALI Responsabilità medica, cosa è cambiato con la legge Balduzzi  

L’articolo 3 della c.d. legge Balduzzi, pur oggetto di contrastanti interpretazioni e complessivi giudizi, un merito ce l’ha davvero: finalmente il legislatore si è fatto carico in concreto del problema del crescente e preoccupante contenzioso giudiziario relativo alla responsabilità medica con soluzioni certamente opinabili ma comunque concrete e specifiche.

È infatti da alcuni lustri che si parla della necessità di una specifica disciplina della materia (1) a fronte di una giurisprudenza sempre più orientata alla tutela del paziente danneggiato con le note conseguenze ormai divenute un problema sociale non più rinviabile quale la reazione difensiva della classe medica che si traduce nelle scelte motivate non esclusivamente nell’interesse del paziente, in passato ritenuto invece valore assoluto e incondizionato (cfr. il consolidato testo dell’ articolo 3 nei vari codici deontologici che si sono succeduti nel tempo), con condotte tendenzialmente omissive per situazioni molto a rischio e presumibilmente compromettenti (c.d. medicina difensiva negativa), altre volte con trattamenti non necessari se non in funzione di una paventata linea difensiva ma comportanti dei costi per il servizio sanitario (c.d. medicina difensiva positiva)(2), con conseguenti ricadute sulla tenuta economica del sistema e sulla garanzia assicurativa di quella che è indubbiamente l’attività professionale più a rischio in assoluto ma, del pari, quella che più deve preoccupare cioè la salute dei cittadini.

L’“intenzione del legislatore”
Vediamo allora di cogliere la portata di questa novella secondo il consueto criterio ermeneutico cioè alla ricerca di quella che è “l’intenzione del legislatore”, oggettivamente intesa, oltre che la interpretazione letterale (articolo 12 preleggi).

L’intervento originario del Dl 13 settembre 2012 n. 158 era chiarissimo: “Fermo restando il disposto dell’articolo 2236 del codice civile, nell’accertamento della colpa lieve nell’attività dell’esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell’articolo 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale ed internazionale ”.

In sede di conversione l’articolo 3 assume il seguente contenuto:
“L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.

L’intento era inizialmente circoscritto ad estendere l’ambito della delimitazione della norma civilistica della responsabilità per colpa lieve di cui sopra anche “all’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale “.

Nella legge di conversione si è cercato di ampliare, e non di poco, l’ambito dell’intervento per un più efficace contrasto alla c.d. medicina difensiva fino a ricomprendervi la responsabilità penale.

Si è dunque, ed opportunamente, cercato di ridimensionare l’ambito della responsabilità sotto i due profili che sono quelli che più incidono in concreto sulla disfunzione della medicina difensiva. Se la strada da percorrere non poteva che essere quella indicata dalla ratio legis, occorreva intervenire incidendo sul c.d. diritto vivente cioè la realtà costituita dalla consolidata giurisprudenza, anche tenendo conto di quelle voci dissenzienti che parrebbero essere state il punto di riferimento non casuale del legislatore.

Il versante civilistico
Cominciamo dal versante civilistico ove pareva inizialmente essere circoscritto l’intervento normativo.

Da tempo (3) era stata avvertita la anomalia di questo sottosistema di creazione giurisprudenziale, particolarmente gravante sul medico; non può dubitarsi che se si voleva incidere sulla medicina difensiva non si poteva prescindere da questa specifica problematica, come reiteratamente rappresentato da una qualificata dottrina medico legale e in termini particolarmente allarmati (4).

Non si riteneva più sufficiente per tutelare la persona che si assumeva danneggiata il principio della vicinanza della prova, si era avvertito così il bisogno di alterare il sistema fin dalle fondamenta col trasformare la responsabilità extracontrattuale del dipendente sanitario, rectius del solo medico, in responsabilità contrattuale con tutte le note conseguenze in tema di onere della prova e di prescrizione.

Le argomentazioni critiche apparivano di tutta evidenza sia in ordine alla prevalente applicazione al medico dipendente, nei confronti del quale peraltro si era per primo orientata la Cassazione introducendo questo istituto (cfr. Cass. 22 gennaio 1999 n. 589), sia soprattutto perché ragioni profonde ostavano a questa indubbia forzatura del sistema.

Più in particolare:
1) Il medico dipendente della struttura sanitaria verrebbe così a rispondere a titolo di responsabilità contrattuale sia nei confronti del suo datore di lavoro sia nei confronti del paziente che si è affidato alla struttura sanitaria per incarico della quale il sanitario si trova ad operare. In conclusione, pare dedursi logicamente, o la prestazione sanitaria è stata convenuta con il medico o con l’ente dal quale il medico dipende. In altri termini il medico si è assunto una obbligazione in proprio, a titolo personale, oppure in nome e per conto dell’ente dal quale dipende e del quale era in quel frangente organo rappresentativo. Una cosa appare certa, egli non poteva cumulare le due ipotesi contrattuali ora dette aventi ad oggetto la medesima prestazione professionale, anche perché diverso è il contenuto delle rispettive obbligazioni.

2) Si viene, con questo artificioso sistema, a prefigurare un contratto senza un reale accordo: il medico non può obbligarsi a titolo personale perché il suo ambito operativo è circoscritto al suo ruolo di dipendente. Non solo, ma più medici vengono di fatto ad interagire con il paziente il quale ha come controparte solo la struttura e non già i vari medici che si susseguono nella prestazione sanitaria, senza peraltro nulla poter decidere autonomamente a titolo personale. In definitiva, saremmo in presenza di tanti contratti quanti sono i medici (questo vale solo per i rapporti diretti, ancorché occasionali, con questi operatori sanitari ma non con chi medico non è) e senza che vi sia alla base alcun accordo con costoro: si prefigura un contratto senza accordo e senza consenso tra le parti in violazione di quanto prescrivono gli artt. 1325 n. 1 e 1326 cod. civ..

Le forti perplessità che tale sistema ingenerava, ma soprattutto le conseguenze che ne derivavano dal discutibile ruolo creativo di tale innovazione giurisprudenziale che veniva a sovvertire il sistema normativo pregresso e consolidato, in particolare la incidenza sull’incremento della medicina difensiva, rende ragione di quella che rappresenta la ratio legis di questo intervento normativo: l’esplicito richiamo alla normativa aquiliana, dunque, non può che significare un ritorno al sistema normativo come in precedenza interpretato e come la stessa interpretazione letterale impone, così contenendo quel contenzioso che appare la causa prima della medicina difensiva.

Il ritorno alla responsabilità aquiliana
Non si può che condividere integralmente (5) la chiara motivazione ermeneutica, con piena cognizione di questa problematica, del Tribunale di Varese nella sentenza 26 novembre 2012 n. 1406 a proposito del richiamo, ancorché molto sobrio, alla responsabilità aquiliana contenuto nella legge di conversione: diversamente opinando, però, non si riesce a dare un senso logico alla ratio di questa specifica disposizione normativa.

Sul punto ci si limita a riportare questo chiaro e pregevole passo motivazionale:
“Il legislatore sembra, consapevolmente e non per dimenticanza, suggerire l’adesione al modello di responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l’azione aquiliana. È evidente che l’adesione ad un modulo siffatto contribuisce a realizzare la finalità perseguita dal legislatore (contrasto alla medicina difensiva) in quanto viene alleggerito l’onere probatorio del medico e viene fatto gravare sul paziente anche l’onere (non richiesto dall’articolo 1218 cod. civ.) di offrire dimostrazione giudiziale dell’elemento soggettivo di imputazione della responsabilità. L’adesione al modello di responsabilità ex articolo 2043 cod. civ. ha anche, come effetto, quello di ridurre i tempi di prescrizione: non più dieci anni ma cinque. Potendosi in astratto, ritenere dunque che l’articolo 3 in esame rappresenti la scelta verso un modello di responsabilità diverso da quello sposato dalla giurisprudenza prevalente, occorre allora interrogarsi circa la proponibilità di una scelta interpretativa del genere … così rintracciate le conseguenze che la legge 189/2012 ha sul sistema della responsabilità sanitaria … anche seguendo questo percorso di ragionamento, ovviamente la previsione di nuovo conio riguarda solo le ipotesi in cui manchi un rapporto contrattuale diretto tra paziente danneggiato e sanitario oppure un rapporto contrattuale atipico di spedalità “(6). Secondo il Tribunale di Varese la ratio della norma, dichiaratamente rivolta a contrastare i perniciosi effetti della medicina difensiva, non consente altra logica interpretazione che questa: il legislatore dissente, come del resto ampia, ed anche risalente, dottrina, da questa pericolosa deriva giurisprudenziale che è andata a contrapporsi ed a vanificare un consolidato sistema normativo che distingue, nel nostro ordinamento, tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.

In fondo la tutela del danneggiato è adeguatamente assicurata dalla pacifica responsabilità contrattuale della struttura, come opportunamente precisa la richiamata sentenza varesina e, anche sotto questo profilo, dunque l’appesantimento della responsabilità del medico non solo appare in contrasto con il consolidato sistema civilistico ma può addirittura rappresentare un sacrificio inutile in quanto non comporta alcun vantaggio concreto a chi è garantito principalmente dalla più solida capacità patrimoniale della struttura sanitaria.

Quanto sopra detto, pur in estrema sintesi, riguarda gli effetti della responsabilità civile del medico.

I profili penali della responsabilità
La medicina difensiva è alimentata nondimeno dai processi penali nei confronti dei medici. Ecco allora che l’intervento normativo non poteva trascurare questo profilo di responsabilità, non considerato nel primo testo dell’intervento normativo, cioè nel Decreto Legge.

Si introduce qui una l’ulteriore limitazione nell’ambito della colpa grave, entro la quale si vuole contenere la responsabilità penale qualora siano state rispettate quelle indicazioni accreditate dalla comunità scientifica.

Si tratta di una sostanziale esenzione dalla responsabilità penale (definita talora come depenalizzazione)nel caso di comportamenti conformi alle linee guida ed alle buone pratiche cliniche che, sul versante della responsabilità civile, se non esonera, tuttavia comporta una riduzione, pur genericamente indicata, del danno risarcibile, nei termini quindi riferibili agli artt. 1226 e 2056 cod. civ..

Si è voluto stimolare non già la standardizzazione burocratica delle attività mediche, come da qualche parte si è paventato con pericolose ricadute proprio su quella medicina difensiva che invece si vuole prevenire, che peraltro sarebbe anche in contrasto con precisi doveri deontologici (artt. 4 e 13), bensì favorire la conoscenza e la applicazione di quegli strumenti diagnostico-terapeutici frutto di esperienze scientifiche accreditate, che consentano tuttavia risposte flessibili ed adeguate al caso concreto: sono quindi da rifuggire sia l’ignoranza delle legis artis sia la rinuncia a quella autonomia che contraddistingue ogni attività professionale la quale, per di più, deve sempre essere funzionale alla “tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo “nonché al “sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana “(articolo 3 Cod. Deont.).

Questi indicatori sono considerati dalla normativa sopratutto sotto il profilo della responsabilità penale e, in certa misura, anche sotto quella civile.

Non c’è dubbio che la quantità e qualità di queste indicazioni, la loro diversa provenienza, la attualità ed il loro diverso grado di valore possono talora rendere difficoltosa la loro specifica e peculiare ricerca e così pure la concreta adattabilità alle multiformi circostanze concrete concorre a rendere particolarmente delicata sia l’indagine peritale che il giudizio finale, pur tuttavia l’esigenza di un termine di confronto oggettivabile di queste fonti di cognizione di leges artis e di un conseguente rispetto per chi si dimostra aggiornato ed attento merita, più della fumosa formula dell’agente modello, di essere considerata nel giudizio di responsabilità: tutto ciò si può apprezzare in termini di una più concreta verificabilità della criteriologia impiegata nell’accertamento della responsabilità e ciò conduce, sempre nella logica di fondo di questa normativa, ad una maggior tranquillità per l’operatore sanitario con le positive ricadute enunciate.

In definitiva, se lo scopo delle linee guida è quello di fornire al medico un prezioso e collaudato strumento, valido per la generalità dei casi,idoneo a massimizzare il livello delle prestazioni sanitarie ciò non deve comportare nel contempo il rischio di una rinuncia alla propria individuale prestazione professionale, quasi che rappresenti un comodo mezzo di esonero da responsabilità il suo acritico ed automatico adeguamento.

Il medico che si facesse scudo di quella che viene chiamata “la medicina procedurale (o assiomatica) che rischia di ingessare pericolosamente la prassi professionale dentro gli stereotipi dei comportamenti attesi (e proceduralizzati) con l’obiettivo di … precostituire cause di giustificazione in quelle attività particolarmente rischiose “(7) non verrebbe meno solo ai suoi doveri deontologici.

Occorre infatti richiamare una recente ma chiara ed univoca giurisprudenza (8) che ha saputo anticipare il novum di questa normativa e che fa ritenerne un uso accorto e prudenziale allorché afferma: “Le linee guida non sono -da sole- la soluzione dei problemi..un comportamento non è lecito perché è consentito, ma è consentito perché diligente “(Cass. 22.11.2011 n. 4391).

Se le linee guida sono state definite dall’Institute of Medicine: “un asserto o una serie di asserti svolti in modo sistematico allo scopo di aiutare le decisioni del medico professionista e/o del paziente sulle cure mediche più adatte in circostanze specifiche “è logico dedurne anche i relativi limiti.

È pacifico, come afferma il Cembrani che: “le conoscenze scientifiche non sono sufficienti da sole a fare del medico un buon professionista della salute “; come assume l’Introna: “la medicina, anche se tecnologicizzata, conserva ancora una forte componente di arte … i protocolli non possono pertanto avere un valore imperativo”; precisa il Barni: “l’impiego di linee guida autorevoli e accreditate è essenziale ed auspicabile nella attività diagnostico-terapeutica, la loro perentorietà va comunque confrontata con gli indirizzi che il medico può trarre dalla esperienza e nella realtà clinica in esame; il significato medico-legale delle linee guida e del comportamento ad esso ispirato è meritevole di grande attenzione ma non è assoluto”; “… in conclusione – osserva il Federspil – le linee guida possono rappresentare uno strumento utile in particolari circostanze, e più precisamente nelle situazioni più semplici ….. ogni situazione patologica concreta, cioè ogni processo morboso concretamente esistente in un certo individuo, è il risultato di un intersecarsi di fenomeni che non ha esempi identici in natura … per cui possono solo dettare comportamenti di massima e non possono mai costituire prescrizioni o ordini “(9).

La linea guida si differenzia dal protocollo che rappresenta piuttosto uno schema comportamentale diagnostico-terapeutico inteso in senso lato, con sequenze ben definite dallo standard che viene impiegato per indicare dei valori minimi o massimi di riferimento, detti anche valori soglia.

Coerentemente con questa consolidata impostazione, dottrinale e giurisprudenziale, tali indicazioni, in altri termini, non potrebbero affatto costituire regole cautelari individuanti una sorta di colpa specifica, oggettivamente predeterminata.

Induceva a questa restrizione dell’ambito della responsabilità penale rispetto al consueto criterio generale della colpa lieve dettato dall’articolo 43 cod. pen. sia l’analogia con sistemi quali quello americano ed inglese ove si prevede la responsabilità solo a titolo di gross neglicence e quindi non per ogni tipo di colpa, anche lieve, sia prendendo posizione sul dibattito, anche nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, sulla stessa ammissibilità del criterio riduttivo della responsabilità per colpa grave, principio peraltro valido per ogni categoria professionale (10).

Sotto il primo aspetto è stato infatti osservato che “l’osservanza delle linee guida può non escludere la colpa (anche grave) dell’operatore dal momento che le indicazioni ivi previste sono elastiche e non esaustive delle regole cautelari da osservare nel singolo caso: lo conferma la giurisprudenza dei paesi che più si sono confrontati con le implicazioni giuridiche delle linee guida, Stati Uniti e Gran Bretagna “(11).

Sotto il secondo, occorre rilevare che la norma in esame ha una ulteriore rilevanza perché introduce, in tali casi, quale criterio per la responsabilità penale la colpa grave, così prendendo chiara posizione in una controversia molto risalente ma ancora non sopita da un contrastante indirizzo della Suprema Corte.

È noto che secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale la limitazione della responsabilità per colpa grave non potrebbe avere cittadinanza in ambito penale ove, tale gravità, potrebbe avere rilevanza solo sotto il profilo del quantum respondeatur ma giammai sotto quello dell’an respondeatur.
Una diffusa, e al momento prevalente, giurisprudenza assume che la gravità della colpa in penale è considerata solo per incidere sulla entità della pena sia come motivo di aggravamento del reato ai sensi dell’articolo 61 n. 3 cod. pen. sia della pena stessa ai sensi dell’articolo 133, I comma n. 3 cod. pen. ma mai come requisito soggettivo di responsabilità (12).

Si va facendo strada, più recentemente, il principio opposto, talora confermato anche da qualche decisione della Cassazione, secondo cui, partendo dalla problematica dell’estensione in ambito penale del criteriologia civilistica che limita la responsabilità ai soli casi di colpa grave nei termini indicati dall’articolo 2236 cod. civ., “…un’esigenza di coerenza interna dell’ordinamento giuridico “porta “alla necessità di evitare che comportamenti che non concretizzano neppure un illecito civile assumano rilevanza nel più rigoroso ambito penale “(Cass.22.11.2011 n. 4391).

In altri termini non è consentito dal sistema che un medesimo fatto possa costituire illecito penale senza che dia luogo a responsabilità civile; lo escluderebbe anche il chiaro disposto dell’articolo 185 cod. pen. secondo cui “ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili”: potrebbe invece verificarsi l’opposto perché la criteriologia deve essere necessariamente più gravosa in penale e non viceversa come sarebbe secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale (13).

Il limite della “colpa grave”
L’intervento normativo, perseguendo la direttiva indicata, ben poteva limitarsi a prendere posizione a favore dell’orientamento giurisprudenziale meno rigoroso che estendeva alla responsabilità penale il criterio limitativo della colpa grave previsto dall’articolo 2236 cod. civ., invece, sempre nella prefata logica è voluto andare oltre, inserendovi un’altra tipologia oltre quella ora menzionata, di fatto restringendo ulteriormente l’ambito della responsabilità penale.

Si ravvisa cioè nell’ammettere la colpa grave in penale nel caso espressamente richiamato nell’articolo 3, che debba ricorrere implicitamente anche quello di cui all’articolo 2236 cod. civ., pur nei limiti consacrati dalla giurisprudenza favorevole alla sua ammissibilità, cioè nel solo ambito della imperizia e non sotto altri profili della colpa, quali la imprudenza e negligenza, come riconosciuto fin dalla sentenza della Corte Costituzionale del 28 novembre 1973 n.166 e costituente ormai un dato pacifico anche nella giurisprudenza di legittimità (ex plurimis: Cass. 16.2.2001 n. 2335; Cass. 12.2.2004 n. 10297; 22.11.2011 n. 4391) ma nel contempo pacificamente applicabile anche in ambito di responsabilità extracontrattuale fin dalla fondamentale decisione delle Sezioni unite del 6 maggio 1971 n. 1282: “l’articolo 2236 cod. civ. può e deve trovare applicazione oltre che nel campo contrattuale anche in quello extracontrattuale…” per la ragione che ricorre “la stessa ratio della norma limitatrice della responsabilità, che la relazione al codice indica nell’esigenza di <non mortificare l’iniziativa del professionista con il timore di ingiuste rappresaglie del cliente in caso di insuccesso>”.

L’ostacolo, ritenuto insormontabile da parte di copiosa giurisprudenza, rappresentato dalla inammissibilità del limite della colpa grave in ambito di responsabilità penale, secondo una interpretazione letterale dell’articolo 43 cod. pen., una volta venuto meno toglie ogni ragione alla pregressa giurisprudenza che, solo per tale motivo, non ammetteva l’estensione della limitazione del principio civilistico alla responsabilità penale.

In conclusione, la restrizione della responsabilità penale del medico, è non solo espressamente specificata nel caso indicato dall’articolo 3 (rispetto delle linee guida ecc..) ma, implicitamente, anche nelle ipotesi indicate dall’articolo 2236 cod. civ., venuta meno la riferita inammissibilità, quale unico argomento ostativo.

Questa interpretazione è non solo in sintonia con tutti i più recenti progetti di riforma (articolo 39 del Ddl n. 2038 presentato dal sen. Riz, non dissimili sotto questo profilo i progetti Grosso e Pisapia) ma, soprattutto, prendendo posizione sulla ammissibilità del criterio meno rigoroso anche in ambito di responsabilità penale prende di fatto chiaramente posizione nell’attuale contrasto che vede contrapporsi due recenti orientamenti della Suprema Corte, avvalorando quello che perviene ad una interpretazione estensiva del criterio civilistico (14) rispetto a quello più rigoroso e negativo, sopra richiamato.

Anche in questo caso il legislatore è intervenuto ad affermare un principio sistematico tanto chiaro quanto rilevante sotto il profilo del contenimento della responsabilità penale e, quindi, sempre nell’ottica del ridimensionamento della medicina difensiva.

In sintesi, la norma in parola ha:
1) ritenuto ammissibile l’istituto della colpa grave come criterio riduttivo della responsabilità penale in precedenza avversato dalla prevalente giurisprudenza, anche di legittimità;
2) conseguentemente, avvalorato quell’indirizzo giurisprudenziale più benevolo verso il medico, pur minoritario, che riteneva anche in questo versante applicabile il criterio civilistico dell’articolo 2236 cod. civ. contraddetto da una prevalente giurisprudenza che ne escludeva l’estensione sul solo presupposto dell’inammissibilità della colpa grave in penale;
3) introdotto un ulteriore criterio di riduzione della responsabilità penale per colpa grave, più oggettivabile, riferito alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.

La colpa grave come criterio riduttivo della responsabilità penale viene ad essere non solo riconosciuta ma viene ad assumere un contenuto più ampio e più qualificato. Anche rispetto a quella giurisprudenza minoritaria che pur la riconosceva ne ha così meglio qualificato il contenuto e quindi l’accertamento dal momento che la responsabilità penale alla colpa grave in precedenza veniva individuata “nell’errore inesorabile che trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell’atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter adoperare correttamente ….nell’arte medica l’errore di apprezzamento è sempre possibile, l’esclusione della colpa professionale trova un limite nella condotta del professionista, incompatibile col minimo di cultura ed esperienza che deve legittimamente pretendersi da chi sia abilitato all’esercizio della professione medica. Insomma l’esclusione della colpa è la regola e l’imputazione colposa è l’eccezione che si configura solo nelle situazioni più plateali ed estreme “(Cass.22.11.2011 n. 4391)

Gli effetti sulla medicina difensiva
In definitiva, si può affermare, che il c.d. decreto Balduzzi è intervenuto, forse in maniera troppo sobria e sintetica, sui temi più dibattuti e controversi sia in giurisprudenza che in dottrina nella intenzione esplicitata di contenere le conseguenze negative della c.d. medicina difensiva e dei costi del Servizio Sanitario Nazionale attraverso un duplice messaggio sia ai giudici che ai medici, cercando di invertire il trend di una interpretazione sempre più rigoristica e talora oserei dire anche forzata rispetto al sistema normativo consolidato (si allude alla responsabilità contrattuale generalizzata e al c.d.contatto sociale) e conseguentemente di ridare maggiore fiducia a chi tratta una materia così delicata ma anche così, inevitabilmente, rischiosa come la salute delle persone.

Non è ancora dato avere una risposta certa e del tutto rassicurante all’ interrogativo se la medicina difensiva e i suoi nefasti effetti verranno meno a seguito di questa legge, stante anche il contrastante giudizio che ne viene dato sia in dottrina che in giurisprudenza; tuttavia può affermarsi che si è avviato un percorso positivo e questo intervento del legislatore ha mandato un segnale inequivoco anche alla giurisprudenza: è l’ora di alleggerire il regime della responsabilità medica invertendo il trend di questi ultimi lustri; viene infatti naturale domandarsi con l’indimenticabile Introna: “…perchè a questi straordinari risultati (che tra l’altro hanno circa raddoppiato la vita media nell’arco di poco più di un secolo) si affiancano ora migliaia di processi penali e civili contro i medici impegnati nella moderna Medicina? “, Riv. It. Med. Leg. 2001,879.

È dunque ancora attuale quell’interrogativo che ci si poneva al I congresso nazionale dei medici legali del Servizio Sanitario Nazionale, tenuto a Riccione il 16.3.2002: “La responsabilità penale per colpa professionale medica è destinata a ridimensionarsi anche in Italia ?“, Giur. It. 2003,IV,1982.

Il decreto Balduzzi ha il merito di aver avviato una riforma quantomai avvertita da tutta la medicina legale da fin troppo tempo e che certamente comincerà a dare i primi frutti nella inequivoca direzione indicata e da più parti auspicata.

NOTE
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(1) Tra le tante pubblicazioni in proposito e più risalenti, si richiama in particolare: AA.VV., Il rischio in medicina oggi e la responsabilità professionale, Atti del convegno di studio della Federazione Nazionale degli Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Roma, 26.6.1999. Nell’introduzione, il presidente Pagni Aldo ben evidenziava, fin da allora, i termini di questa problematica e l’esigenza di una specifica disciplina, di cui si discute tuttora: “L’esasperazione, cui stiamo assistendo – anche con la complicità dei mass media- del concetto di malpractice in medicina, richiede una attenta riflessione … è vero che la responsabilità del medico è andata crescendo nel tempo, parallelamente al progresso medico-scientifico da un lato, che consente oggi interventi una volta persino impensabili e, dall’altro, all’evoluzione della società e quindi alla presenza di un cittadino sempre più informato e sempre più consapevole dei propri diritti. È anche vero che si rende necessario, oggi più che mai, individuare limiti e confini della responsabilità del medico sia sul piano civile che penale …. Sbaglia infatti chi ritiene la medicina una scienza esatta: essa è invece strettamente legata al principio del probabilismo e di casaulità che derivano dall’agire umano. Ma, diversamente da quanto accade in altri campi, l’errore in ambito sanitario è stato sempre caratterizzato da una gravità e una responsabilità del tutto particolari. Il che, se da un lato appare del tutto condivisibile in quanto investe il bene primario dell’individuo, dall’altro tende necessariamente a creare un atteggiamento di cautela e un clima di demotivazione dei medici ….tutto ciò ha anche una rilevante implicazione economico-sociale per la proiezione sul Servizio Sanitario Nazionale, dei costi assicurativi che servono a fronteggiare le cause per danni subiti da pazienti “.
(2) Fiori A., La medicina difensiva, Riv. It. Med. Leg. 1996,899.
(3) Bilancetti Francesco e Mauro, La responsabilità penale e civile del medico, VII ed., Padova 2010, 895; Forziati M., La responsabilità del medico dipendente: il contatto sociale conquista la Cassazione, Resp. Civ. Prev. 1999,661; Di Ciommo F., Note critiche sui recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità del medico ospedaliero, Foro It. 1999, I, 3333.
(4) Fineschi V., Fucci S., Riezzo I, “…nell’intrapreso cammino di consolidazione del principio in favore del danneggiato … la Federazione Nazionale dei Medici ufficialmente risponde con la richiesta di … modifiche dell’ordinamento tali da circoscrivere la responsabilità professionale sanitaria …”, La valutazione della responsabilità medica tra consolidamento metodologico e semantica lessicale nella recente giurisprudenza, Riv. It. Med. Leg. 2008, 765; Fiori A., Marchetti D., “il danno che dalla impostazione giurisprudenziale, sempre più estensiva, ed in molta misura irrealistica, potrà derivare sia alla classe medica che ai cittadini tutti, sia i sani che i malati, non è per ora prospettabile nella sua entità “,Un altro passo verso l’obbligazione di risultato nella professione medica?, Riv. It. Med. Leg. 2008,872; Fiori A., “… la medicina difensiva induce molti medici –specie quelli più esposti alle denunce penali ed alle citazioni in sede civile –ad eccessi di trattamenti diagnostici e terapeutici o al contrario a rinunce a trattamenti utili o addirittura necessari…”, La medicina delle evidenze e delle scelte sta declinando verso la medicina dell’obbedienza giurisprudenziale ?, Riv. It. Med. Leg. 2007,925; Thiene A., “…ne discende una responsabilità contrattuale del medico dipendente, derivante non dall’inadempimento di una obbligazione di prestazione che non ha mai assunto, bensì dalla violazione della sfera giuridica altrui che trovano fondamento nell’affidamento inevitabilmente generato nel malato dallo status professionale del medico ….questo rigore nel tratteggio degli obblighi gravanti sul medico, unito alle rinnovate regole sulla distribuzione dei carichi probatori … sembra portare la responsabilità medica addirittura oltre le frontiere della responsabilità oggettiva”, Responsabilità del medico e tutela del paziente, Studium juris 2012, 301.
(5) “Appare infatti significativo nel senso ora indicato che il legislatore richiami espressamente proprio <l’obbligo di cui all’articolo 2043 del Codice Civile> quando già con la dichiarata sentenza n. 589 del 1999 la Cassazione aveva indirizzato in maniera univoca la giurisprudenza successiva che <quanto alla natura della responsabilità professionale del medico dipendente di una struttura … non può esservi responsabilità aquiliana>; né tantomeno avrebbe senso alcuno a fronte di rapporti nati inequivocamente come rapporti contrattuali: ciò non può logicamente esprimere altro che una volontà del legislatore in termini innovativi rispetto alla giurisprudenza consolidatasi negli ultimi due lustri, che poi, in altri termini, non può che voler dire ritorno a quella tradizionale impostazione sistematica sopra richiamata, qui preferita per le ragioni fin qui ampiamente evidenziate”. Bilancetti Francesco e Mauro, La responsabilità penale e civile del medico, VIII ed., Padova 2013, 1067.
(6) Guida al Diritto, Il Sole -24Ore del 26 gennaio 2013, 35.
(7) Cembrani F., La legge Balduzzi e le pericolose derive di un drafting normativo che (forse) cambia l’abito alla responsabilità giuridica del professionista della salute, Riv. It. Med. Leg. 2013, 799.
(8) “L’adeguamento o il non adeguamento del medico alle linee guida non esclude né determina automaticamente la colpa. È evidente, infatti, che le linee guida contengono valide indicazioni generali riferibili al caso astratto, ma è altrettanto evidente che il medico è sempre tenuto ad esercitare le proprie scelte considerando le circostanze peculiari che caratterizzano il caso concreto e la specifica situazione del paziente, nel rispetto della volontà di quest’ultimo, al di là delle regole cristallizzate nei protocolli medici. La verifica circa il rispetto delle linee guida va pertanto sempre affiancata ad un’analisi – svolta eventualmente attraverso perizia – della correttezza delle scelte terapeutiche alla luce della concreta situazione in cui il medico si è trovato ad intervenire “(Cass. 19 settembre 2012 n. 35922); “… ha in particolare sostenuto il primo giudice che, se pur era vero che il medico, all’atto della dimissione, si era attenuto scrupolosamente alle linee guida, era anche vero che queste non costituiscono unica regola di condotta del medico, sufficiente ad escludere qualsiasi ipotesi di colpa professionale. Fermo restando il valore di tali regole o protocolli come indicazioni generali riferibili ad un caso astratto, permaneva comunque per il medico, secondo il primo giudice, la necessità di valutare specificamente il caso affidato al suo giudizio, di rilevarne ogni particolarità, di adottare le decisioni più opportune, anche discostandosi da quelle regole …il rispetto delle linee guida, quindi assunto nel caso di specie quale parametro di riferimento … nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate né all’autonomia ed alla responsabilità del medico nella cura del paziente … mentre il medico che risponde anche ad un preciso codice deontologico, che ha in maniera più diretta e personale il dovere di anteporre la salute del malato a qualsiasi altra diversa esigenza e che si pone, rispetto a questo, in una chiara posizione di garanzia, non è tenuto al rispetto di quelle direttive, laddove esse siano in contrasto con le esigenze di cura del paziente, e non può andare esente da colpa ove se ne lasci condizionare, rinunciando al proprio compito e degradando la propria professionalità e la propria missione a livello ragioneristico”, in definitiva, si conclude: “il rispetto delle linee guida non esime automaticamente dalle proprie responsabilità”. (Cass. 23.11.2010 n. 8254); “… i protocolli … danno al medico un’indicazione di base sulla quale deve tuttavia innestarsi un comportamento che sia corretto secondo scienza e coscienza “(Cass. 5.6.2009 n. 38154); “E’ corretto, e conforme ai principi del diritto valorizzare l’autonomia del medico nelle scelte terapeutiche poiché l’arte medica, mancando, per sua stessa natura, di protocolli scientifici a base matematica, cioè di predimostrata rigorosa successione di eventi, spesso prospetta diverse pratiche o soluzioni che l’esperienza ha dimostrato efficaci, da scegliere oculatamente in relazione a una cospicua serie di varianti che, legate al caso specifico, solo il medico nella contingenza della terapia può apprezzare. Questo concetto, della libertà nelle scelte terapeutiche del medico, è un valore che non può essere compromesso a nessun livello nè disperso per nessuna ragione, pena la degradazione del medico a livello di semplice burocrate con gravi rischi per la salute di tutti “(Cass. 8.2.2001, Riv. Pen.2002, 253).
(9) Cembrani F., Decidere in medicina, 2010,5,2-4; Introna F., Metodologia medico legale nella valutazione della responsabilità medica per colpa, Riv. It. Med. Leg. 1996,1323; Barni M., Consulenza medico-legale e responsabilità medica, Milano, 2002, 65; Federspil G., I limiti della medicina: probabilità, errori e linee guida, Atti del convegno della F.N.O.M.C.e O. cit., 97.
(10) Bilancetti Francesco e Mauro, La responsabilità del professionista tecnico: ingegnere, architetto, geometra; Padova, 2012, 235.
(11) Di Landro A.R., Le novità normative in tema di colpa penale (L. 189/2012, c.d. “Balduzzi “). Le indicazioni del diritto comparato, Riv. It. Med. Leg. 2013, 833.
(12) “Secondo l’insegnamento di questa Suprema Corte l’ordinamento giuridico penale distingue tra i vari gradi di colpa soltanto ai fini della misura della pena e non ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo anche sub specie imperitiae” (Cass. 2.7.2002 in Giust. Pen. 2003,338); “non appare condivisibile la tesi secondo cui nell’ambito della responsabilità medica trova applicazione l’articolo 2236 cod. civ. che limita ai soli casi di colpa grave … la gravità della colpa potrà avere eventualmente rilievo solo ai fini della graduazione della pena “(Cass. 23.3.2007 n. 21588); “da tempo la giurisprudenza di questa Suprema Corte è consolidata nel senso che la colpa debba essere valutata nell’ambito penale alla stregua dei principi enunciati dall’articolo 43 cod. pen.; e che invece non trovi applicazione il principio civilistico, espresso dall’articolo 2236 cod. civ., secondo cui nell’ambito considerato rileva la colpa grave “(Cass.28.10.2008 n. 46412); in caso di responsabilità penale di un medico specializzando, tale sentenza viene richiamata espressamente, per cui si conferma che “nel caso di specie non possa trovare applicazione in sede penale il principio civilistico della colpa grave sancito dall’articolo 2236 cod. civ.”(Cass. 17.1.2012 n. 6981).
(13) Bilancetti Francesco e Mauro, La responsabilità penale e civile del medico, VIII ed., Padova, 2013, 815.
(14) “Questa Corte ha già avuto modo di enunciare, condivisibilmente, che la norma civilistica può trovare considerazione anche in tema di colpa professionale del medico, quando il caso specifico sottoposto al suo esame imponga la soluzione di problemi di specifica difficoltà, non per effetto di diretta applicazione nel campo penale ma come regola di esperienza cui il giudice possa attenersi nel valutare l’addebito di imperizia sia quando si versi in una situazione emergenziale, sia quando il caso implichi la soluzione di problemi di speciale difficoltà … (laddove) i contesti per la loro difficoltà possono giustificare una valutazione <benevola> del comportamento del sanitario: da un lato le contingenze in cui si sia in presenza di difficoltà o novità tecnico-scientifiche; e dall’altro(aspetto mai prima enucleato esplicitamente) le contingenze nelle quali il medico si trova ad operare in emergenza e quindi in quella situazione turbata dall’impellenza che, come si è sopra accennato, rende non di rado difficili anche le cose facili” (Cass. 5.4.2011 n. 16328); “Il rilievo in ambito penale di tale norma (articolo 2236 cod. civ.) è stato sostanzialmente ricondotto ad un’esigenza di coerenza interna dell’ordinamento giuridico e così della necessità di evitare che comportamenti che non concretizzano neppure un illecito civile assumano rilevanza nel più rigoroso ambito penale …le prestazioni richieste devono presentare speciali difficoltà tecniche ed inoltre le limitazioni dell’addebito ai soli casi di colpa grave riguarda l’ambito di imperizia e non, invece, quelli della prudenza e della diligenza” (Cass. 22.11.2011 n. 4391).

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